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Coronavirus, il cappellano del Sacco di Milano: “I malati chiedono vicinanza.”

Coronavirus, il cappellano del Sacco di Milano: “I malati chiedono vicinanza, aspetto anche 40 minuti solo per chiedere se hanno riposato” La pandemia non spegne le domande di senso degli uomini. Don Giovanni Musazzi racconta la sua quotidianità con gli ammalati e con i medici: «Si lavora al 150%. Assisto ad una testimonianza di bene contagiante» Coronavirus, il cappellano del Sacco di Milano: “I malati chiedono vicinanza, aspetto anche 40 minuti solo per chiedere se hanno riposato”

 

MILANO. «A un cappellano viene chiesto di fare il cappellano. Sono un ospite che testimonia con la sua presenza che Dio c’è». Don Giovanni Musazzi è il volto della misericordia di Dio nelle corsie dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano. «La presenza è il punto di partenza» per instaurare un dialogo con i medici e con i pazienti. Sul camice usa e getta scrive di volta in volta, con il pennarello, la parola “prete”. «Visito i pazienti Covid». A volte si deve limitare a una benedizione attraverso il vetro. «Ma sono entrato, con le protezioni necessarie, anche in alcune stanze. Le giornate volano veloci (gli incontri, compresi i preparativi, possono durare anche un’ora).
«Una signora con la polmonite quando mi ha visto – racconta il sacerdote della Fraternità San Carlo – si è messa a piangere, perché normalmente non possono ricevere visite. La sua compagna di stanza, cattolica ma non praticante, quando ha capito che ero un prete, si è commossa ed è scoppiata in lacrime». La malattia può degenerare in fretta. «Molte persone desiderano confessarsi. Mi posso fermare due/tre minuti per la comunione e l’assoluzione generale. Non posso avvicinarmi. Faticano a parlare, ma sono molto felici di vedere un sacerdote e qualcuno che non è obbligato a restare lì».
Nonostante lo sconforto, la speranza cristiana è ben visibile. «La sofferenza può nascondere Dio ma non lo elimina. Cerco di assumere la sofferenza delle persone che incontro e prego con loro. Diversamente sarebbe solo un esercizio di retorica». L’uomo è alla ricerca di continue risposte: «L’epicureo sazio, seduto sul divano con in mano il telecomando, afferma che se c’è la sofferenza, non c’è Dio. Noi, invece, vediamo che più c’è sofferenza, più c’è una ricerca di Dio, perché emerge una ricerca di senso. Noi strutturalmente siamo preghiera. Nasciamo piangendo, chiedendo che qualcuno ci soccorra», racconta il sacerdote.
Ma se prego, chi viene in mio aiuto? «L’unico modo per far capire che c’è Qualcuno, è mostrare un uomo che va in soccorso. Nel patrimonio della Chiesa, soprattutto dell’ultimo secolo, abbiamo dimenticato che Dio si è fatto carne: Dio ti raggiunge attraverso l’uomo». Ognuno di noi con i suoi limiti può diventare determinante per l’altro. «Per questo il Papa dice di non chiudersi in sagrestia. La gente, anche in questo momento difficile, ha bisogno di sentirci vicini».
La figura del cappellano (insieme a lui opera don Mauro Carnelli, un presbitero diocesano) ricopre un ruolo molto importante anche per tutto il personale sanitario che si sta sobbarcando un peso non indifferente. «La struttura non è al collasso. Sta funzionando al 150%. In Ospedale è scomparso il lamento. La gente lavora al 150%: ferie sospese; i giorni di riposo sono chimere; turni di 12 ore… Tutti lo fanno perché si rendono conto di vivere un tempo straordinario: questo, infatti, fa vedere le cose come sono. Chi è egoista diventa ancora più egoista; chi è buono diventa ancora più buono; chi lavora, lavora ancora di più. Dentro alla difficoltà assisto a una testimonianza di bene contagiante: le persone cambiano».
Continua ad incontrare i medici. E più di una persona, ogni giorno, gli raccomanda: «Non smettere di venire, perché abbiamo bisogno di vederti». «Non faccio – sottolinea – cose straordinarie. Aspetto anche quaranta minuti alla porta per chiedere semplicemente se la notte si sono riposati. Magari quella persona non ha nessuno che glielo chiede…». Del resto chi lavora «nella zona critica» vive normalmente separato dalla sua famiglia («ci ritroviamo a parlare della moglie e dei figli»); lo stesso ospedale ha messo a disposizione delle camere in hotel.
«Hai tempo per darmi la comunione?», è una delle tante richieste che gli vengono formulate. Le Messe nella piccola cappella sono sospese. Dalle 8 alle 9 e dalle 11,30 alle 12,30 fa l’adorazione eucaristica che diventa un punto di riferimento per tutti: chi passa, sa che lì c’è l’eucaristia. Arrivano, pregano ed escono. Non molto tempo fa, in un reparto, ha incontrato nella zona contaminata un’infermiera anticlericale che gli ha posto alcune raccomandazioni sulla mascherina e, guardandolo, l’ha spronato: «Continui a venire, perché muoiono soli».
Ha celebrato un funerale (la semplice benedizione della salma) solo con il feretro in un piazzale perché i parenti erano in quarantena. «I dipendenti delle onoranze funebri hanno scattato una foto per poter mostrare almeno un ricordo ai parenti: “È l’unica cosa che possiamo fare per loro”». Di fronte al dolore, «io non posso dirti che Dio ti ama. Devo dire: io ti amo e sono disposto a condividere un po’ di tempo con te. Allora – conclude don Giovanni – posso dire a una persona che Dio lo ama».